Lettera 76 pubblicata il 6 febbraio 2016
PARTECIPAZIONE AL CANTO NELLA MESSA
Inauguriamo questo mese una serie di lettere dedicate al rapporto fra la musica liturgica e la forma straordinaria del rito romano. Curato dal Maestro Aurelio Porfiri, trasteverino di nascita e di cuore nonché ricco di una lunga esperienza nella musica liturgica a tanti livelli e in tanti contesti culturali (come la Basilica di San Pietro e poi in Asia negli ultimi sette anni per esempio), quest'insieme di articoli intende proporre una visione contemporanea della musica liturgica investigando i suoi fondamenti validi per ogni tipo di rito e forma liturgica e poi anche nel "nuovo" quadro liturgico creato dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI.Siamo lieti e onorati che il Maestro Porfiri - autore l'anno scorso di un libro elettronico in inglese sull'argomento - abbia scelto Paix liturgique come uno dei canali per la divulgazione del suo lavoro che riteniamo dover essere un'occasione di scambio non solo fra addetti ai lavori ma deve anche interpellare il singolo fedele sul suo rapporto personale con il canto liturgico e la sua importanza nell'ambito della partecipazione all'azione sacra che è la liturgia.
PARTECIPAZIONE AL CANTO NELLA MESSA
Dal Maestro Aurelio Porfiri
Ci sono stati pochi temi che hanno catturato l'attenzione degli addetti alle cose liturgiche come quello della partecipazione. Questo termine è stato impugnato ora da una, ora dall'altra fazione come se ognuno ne possedesse il significato segreto, recondito, rivelato soltanto ad un ceto eletto che faceva così sconfinare pur legittimi dibattiti su questo tema in riunioni di liturgisti gnostici. Gnostici perché si è fatto della partecipazione, specie nel dopo concilio, un tema di battaglia di cui però si celavano le coordinate interpretative, facendola così contenitore di ogni istanza di tipo politico, sociologico, psicologico.
"Partecipare" è significato per alcuni che tutti fanno tutto, ma questo tipo di interpretazione è mortificante del vero significato della partecipazione che non è nella modalità del fare ma in quella dell'essere che non esclude il fare ma lo contiene in un processo più grande e più articolato. Il fare presuppone l'essere e ciò che si va facendo, non è fine a se stesso. Ora, questo va precisato meglio.
Due confusioni speculari
La Sacrosanctum Concilium definisce la liturgia "azione sacra". Ciò farebbe pensare che l'elemento del fare sia preminente e più importante di quello dell'essere, ma in realtà bisogna leggere questa definizione nella sua interezza, in quanto quel "sacra" qualifica l'azione e così il fare dell'azione si innesta sull'essere dell'elemento sacro. Così come in una croce, l'elemento dell'essere è già alla nostra origine, già innestato nel calvario, mentre quello del fare viene dai noi portato lungo la "via dolorosa" che è la nostra vita. Quindi, pur essendo actio essa è ordinata alla modalità del sacro, che da senso a questa azione facendola rifuggire da un puro muoversi di tipo vitalistico. Cantare per cantare non ha senso, non ha senso dire che l'assemblea canta se questo canto (il fare) non è innestato nella sola reale presenza (diremmo con Divo Barsotti) che fonda la categoria dell'essere. Sant'Agostino ci ha insegnato che in interiore homine habitat veritas.
Purtroppo, mentre si faceva questa confusione di cui si è appena riferito da alcuni riformatori del dopo concilio, alcuni di coloro che si sentivano legati a quella che verrà chiamata forma straordinaria del rito romano hanno spesso avuto una reazione ugualmente inappropriata e di segno opposto, per cui era segno di fedeltà alla "tradizione" l'assistere semplice e passivo alla Messa, senza preoccuparsi di dover cantare in questa o quella parte della celebrazione, soltanto godendo di quello che il coro o l'organista erano in grado di offrire. Ora, sembra che entrambi questi atteggiamenti nascondano una improprietà di fondo e che recuperando un senso più autentico della partecipazione si approfondiranno anche alcuni dati importanti della Messa stessa, che altrimenti rischiano di rimanere un poco in sottofondo, dilaniati solo da "guerre liturgiche" che poi, alla fine, non conducono a nessuna vittoria.
Partecipazione come convocazione
Partecipare, come dice la parola stessa (pars + capere) significa "prendere parte". Ora, dal modo in cui si legge questa parola discendono conseguenze importanti. Purtroppo in tempi recenti si è messa molta enfasi su "chi prende parte", piuttosto che "a cosa si prende parte". Questo slittamento di soggetto ha anche causato uno slittamento valoriale, come se gli invitati ad un compleanno fossero più importanti del festeggiato. In realtà, come tutti sappiamo, il festeggiato è di certo più importante e tutti gli sforzi degli invitati alla "festa" (altro termine largamente usato ed abusato negli ultimi decenni) sono diretti in funzione del festeggiato. Altrimenti, si corre il rischio di quello che il liturgista servita Silvano Maggiani chiama "partecipazionismo", la rincorsa a far fare tutto a tutti con conseguente perdita del centro della actio liturgica che non è "chi partecipa" ma quello a cui si partecipa. Nella liturgia non siamo noi che agiamo ma siamo noi che veniamo agiti. Penso che questo pensiero sia ben espresso dal monaco Pierre Miquel (1920-2003) abate dell'abbazia benedettina di San-Martin di Ligugé: "Per lungo tempo si è pensato alla liturgia anzitutto, se non esclusivamente, come espressione del sentimento religioso. Oggi stiamo scoprendo che la liturgia, prima di essere "espressione", cioè la somma delle emozioni di un gruppo umano, è "impressione", cioè accoglienza di una Parola che convoca l'assemblea liturgica, la raduna con una forza unificante e la invia in seguito a diffondere quello che ha ricevuto nella celebrazione" (Miquel, 2008, p. 10).
La prospettiva introdotta nell'interessante testo del padre benedettino e ribadita poi in numerosi scritti dal Cardinal Ratzinger/Benedetto XVI è quella della liturgia come dono a cui noi siamo chiamati a partecipare. Lo diceva bene questo pontefice in un discorso ai vescovi della Svizzera del 7 novembre 2006: "Io credo che a seguito di tutto ciò man mano diventi chiaro che la Liturgia non è un'“auto-manifestazione” della comunità la quale, come si dice, in essa entra in scena, ma è invece l'uscire della comunità dal semplice “essere-se-stessi” e l'accedere al grande banchetto dei poveri, l'entrare nella grande comunità vivente, nella quale Dio stesso ci nutre. Questo carattere universale della Liturgia deve entrare nuovamente nella consapevolezza di tutti. Nell'Eucaristia riceviamo una cosa che noi non possiamo fare, ma entriamo invece in qualcosa di più grande che diventa nostro, proprio quando ci consegniamo a questa cosa più grande cercando di celebrare la Liturgia veramente come Liturgia della Chiesa". Ma questa partecipazione, come detto e ripetuto, è forzatamente gerarchica e ordinata al soggetto principale della celebrazione, quel per ipsum, et cum ipso, et in ipso che il celebrante proclama in ogni Messa. Essa è attiva nel senso che è una risposta volontaria del popolo di Dio alla convocazione alla celebrazione, non è attiva nel senso di fare dell'attivismo.
La musica è arte, l'arte è elitaria
Si è sbandierato lo slogan "che il popolo canti!" di ceciliana memoria, senza ricordare che con questo si intendeva "che il popolo canti quello che gli compete", non che esso potesse prendere il sopravvento su ogni professionalità che era ritenuta necessaria perché la liturgia risplendesse di quella bellezza che richiamava la Bellezza di Dio. Questo è anche quanto chiesto dalla Sacrosanctum Concilium che al numero 28 stabiliva: "Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza".
Questa evidente improprietà è seguita, o forse preceduta, da quella che ha a che fare con il concetto che si ha dell'arte e della musica nella liturgia. Si ha paura a dichiarare quella che è una evidente verità: l'arte, compresa l'arte liturgica, è elitaria. Ora, su questo elitarismo dovremmo certamente comprenderci. Non si vuole intendere con questo termine che essa sia escludente, quasi un sapere gnostico riservato a pochi. No, non è affatto così. Ma essa è elitaria in ordine alla sua creazione e produzione in quanto richiede una preparazione ed uno studio tecnico che si riserva a chi sceglie di dedicarsi alla musica, alla pittura, alla scultura con serio impegno e studio.
L'idea che l'arte deve venire dal basso non è congrua. L'arte non è dal popolo ma per il popolo. Se accettiamo che l'arte deve venire dal basso ci esponiamo alle produzioni che non sono veramente del popolo, ma che il popolo crea "impressionato" dalle mode culturali del momento, mode culturali che spesso sono in aperto contrasto con il messaggio cristiano ma a cui il popolo non può reagire non avendo gli strumenti artistici, culturali ed estetici per discernere. Se io ho dei sintomi posso indovinare che tipo di malattia ho seguendo una certa esperienza ma per una diagnosi certa mi devo affidare ad un medico che ha una visione più ampia del comportamento di certi sintomi. Il musicista formato sa come ripararsi da derive commerciali (o almeno lo dovrebbe sapere, qui si sta generalizzando) e sa come proteggere quell'elemento sacro nella musica che è atto ad elevare gli animi alle cose celesti. Il popolo, lasciato a se stesso e senza l'ausilio di coloro che hanno i mezzi tecnici ed artistici per operare nella liturgia, non può che ricorrere all'elementare, abbassando e non elevando il livello della liturgia ed esponendosi ad una sorta di corto circuito celebrativo, per cui quello che alla fine accade, come detto in precedenza da Benedetto XVI, è che ci si autocelebra, la Messa diviene una auto manifestazione della comunità in senso orizzontale, non tenendo conto del fatto che la celebrazione è diretta a Dio, non alla nostra pur necessaria auto espressione.
Già Romano Guardini osservava che "la liturgia non è opera del singolo, bensì della totalità dei fedeli (...). Il soggetto che compie l'azione liturgica della preghiera, non è il semplice totale di tutti i singoli partecipi della stessa fede. È l'insieme dei fedeli, ma in quanto la loro unità ha un valore autonomo, prescindendo dalla quantità dei credenti che la formano: la Chiesa" (Guardini, Lo spirito della liturgia. I santi segni, 1930, p. 37). Bisogna stare attenti a non aver un concetto della partecipazione troppo orizzontale o si incorre nei pericoli di cui sopra. Abbiamo ricordato che l'orizzontale ha senso quando si innesta nel verticale. Mi piace qui citare una provocazione che però mi sembra molto azzeccata di Robert Poulet, che così dice: "Uno dei maggiori delitti che siano stati commessi contro il popolo fu di abbandonarlo al suo gusto, che è detestabile. Vero è che quello dei borghesi non vale niente di più. La bellezza, quando regnò, fu oggetto di una dura disciplina, imposta da una minoranza alla maggioranza, e di cui questa, diventata padrona dei propri piaceri e delle proprie preferenze, si liberò con sollievo" (Poulet, Contro la plebe, 1969, p. 11).
Il gusto del popolo non è detestabile per colpa del popolo ma perché spesso esso è in balia di mode, in balia di potentati economici e commerciali che hanno tutti i mezzi per orientarne i gusti facendo leva sui sentimentalismi più bassi ed immediati. Allora cosa dire del canto popolare? Il canto popolare, spesso nel passato nobile espressione del meglio della sensibilità veramente popolare fu sempre tenuto in considerazione nella liturgia riservandogli luoghi appropriati e distinguendolo con attenzione dal canto liturgico, che è un'altra cosa. Quindi, dopo aver capito a cosa si partecipa, dobbiamo stare attenti a con che cosa si partecipa.
Partecipare integralmente
Ma in che modo dobbiamo intendere la partecipazione dunque? Dobbiamo ritenere così importante partecipare al canto? Questo è un tema che va trattato con attenzione e precisione.
Come appena detto la partecipazione al canto è certamente importante, ma prima va inteso cosa intendiamo per partecipare, cercando di mantenere una posizione equilibrata fra diverse fazioni che si contendono una con l'altra. Si intende facilmente che il "partecipazionismo" di cui si parlava in precedenza è stato nutrito da una idea sbagliata della partecipazione del tutto sbagliata, idea per cui tutti devono fare tutto in quanto partecipare significa "fare qualcosa". La partecipazione come "atto fisico" ci offre una visione di questo concetto dimidiata, come direbbe il buon Romano Amerio. Se accettassimo questo dovremmo convenire che chi va ad un concerto non partecipa in quanto non suona direttamente o non canta, che quando guardiamo un film non partecipiamo in quanto non stiamo recitando noi e via dicendo. Questo perché la partecipazione interessa certamente anche l'interiorità di coloro che partecipano, non è difficile capire questo. Ma c'è un errore di segno opposto. Questo errore è compiuto da coloro che racchiudono tutta la partecipazione in un atto esclusivamente interiore che, se può essere compreso quando si va ad un concerto o a vedere un film, in quanto è palesemente accettato che lo spettatore partecipa alla performance di esecutori o attori, è meno comprensibile e auspicabile in un atto del corpo mistico integrale come quello della Messa.
Noi non siamo spettatori che volontariamente decidono di assistere e "partecipare" nella modalità propria a questo o quello spettacolo. Nella Messa siamo vocati, diremmo che siamo convocati come membri del corpo mistico che è la Chiesa. La nostra partecipazione qui è integrale e richiede l'assenso interiore e l'atto di partecipazione dell'uomo integrale (interiore-esteriore). Nessuno può metter in dubbio che la partecipazione interiore sia precedente a quella esteriore: “A coloro che insistevano di più sulla partecipazione durante la Messa, Evelyn Waugh rispondeva: Partecipazione non significa ascoltare la tua propria voce, significa che Dio sta ascoltando le nostre voci. Lui solo sa chi 'partecipa' alla Messa” (Thomas E. Woods, Sacred Then and Sacred now. The return of the Old Latin Mass, 2008, p. 77). Ma questa precedenza è di livello temporale e non qualitativo, essendo entrambe importanti ai fini della retta partecipazione alla liturgia.
La partecipazione secondo i papi del '900
Detto questo ed usando buon senso ed equilibrio, in linea con quanto chiesto dai Papi, bisogna convenire che anche la partecipazione esteriore va curata. Per quello che riguarda l'atto esteriore esso si esplica nelle risposte al sacerdote ma anche nel partecipare ad alcune parti in canto. E questa richiesta non è semplicemente un portato della riforma liturgica successiva al Vaticano II ma era richiesto solennemente anche dai pontefici pre-conciliari. Il richiamo ad abbeverarsi attivamente alla fonte della liturgia viene già da San Pio X, che nel suo Motu Proprio sulla musica sacra del 22 novembre 1903 così affermava: "Essendo, infatti, Nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca per ogni modo e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima ed indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa".
Esplicita ancora meglio questo punto Pio XI nella Divini Cultus Sanctitatem del 20 dicembre 1928, solennemente afferma: "Affinché i fedeli partecipino più attivamente al culto divino, il canto gregoriano — per quanto spetta al popolo — sia restituito all’uso del popolo. Infatti, occorre assolutamente che i fedeli non assistano alle funzioni sacre come estranei o muti spettatori ma, veramente compresi della bellezza della liturgia, partecipino alle sacre cerimonie — anche alle solenni processioni dove intervengono il clero e le pie associazioni — in modo da alternare, secondo le dovute norme, la loro voce a quelle del sacerdote e della scuola. Se quanto auspicato si verificherà, non accadrà più che il popolo non risponda affatto o risponda appena con sommesso mormorio alle preghiere comuni proposte in lingua liturgica o in lingua volgare" (IX). Le modalità di questa partecipazione che è richiesta a gran voce dai pontefici verranno poi inquadrate meglio da documenti successivi, come quelli di Pio XII.
Pio XII nella Mediator Dei (1947) ci dice che è richiesto dal culto questa dimensione interna ed esterna. Andrebbe riletto questo passaggio in cui Papa Pacelli diceva che, pur dando maggiore importanza alla dimensione interiore del culto, esso "è esterno perché lo richiede la natura dell'uomo composto di anima e di corpo; perché Dio ha disposto che «conoscendoLo per mezzo delle cose visibili, siamo attratti all'amore delle cose invisibili» (cfr. Missale Romanum, Prefazio della Natività); perché tutto ciò che viene dall'anima è naturalmente espresso dai sensi; di più perché il culto divino appartiene non soltanto al singolo ma anche alla collettività umana, e quindi è necessario che sia sociale, il che è impossibile, nell'ambito religioso, senza vincoli e manifestazioni esteriori; e, infine, perché è un mezzo che mette particolarmente in evidenza l'unità del Corpo Mistico, ne accresce i santi entusiasmi, ne rinsalda le forze e ne intensifica l'azione". Questo elemento esterno fu curato ed incoraggiato dal movimento liturgico per tutto il XX secolo, anche prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II.
Non dimentichiamo che ancora Pio XII nella Musicae Sacrae Disciplina del 25 dicembre 1955, incoraggiava all'uso del canto popolare anche nella liturgia se questo poteva essere di giovamento alla partecipazione dei fedeli ma sempre distinguendo, questo è il punto importante, il canto popolare dal canto liturgico: "A questi aspetti che hanno più stretto legame con la liturgia della chiesa si aggiungono, come abbiamo detto, i canti religiosi popolari, scritti per lo più in lingua volgare, i quali prendono origine dal canto liturgico stesso, ma, essendo più adatti all'indole e ai sentimenti dei singoli popoli, differiscono non poco tra di loro, secondo il carattere delle genti e l'indole particolare delle nazioni. Affinché tali canti religiosi portino frutto spirituale e vantaggio al popolo cristiano, devono essere pienamente conformi all'insegnamento della fede cristiana, esporla e spiegarla rettamente, usare un linguaggio facile e una melodia semplice, aborrire dalla profusione di parole gonfie e vuote e, infine, pur essendo brevi e facili, avere una certa religiosa dignità e gravità. Quando abbiano tali doti, questi canti sacri, sgorgati quasi dal più profondo dell'anima del popolo, commuovono fortemente i sentimenti e l'animo ed eccitano pii affetti; quando si cantano nelle funzioni religiose dalla folla radunata elevano l'animo dei fedeli alle cose celesti. Perciò, sebbene, come abbiamo detto, nelle messe cantate solenni non possono usarsi senza speciale permesso della Santa Sede, tuttavia nelle messe celebrate in forma non solenne possono mirabilmente giovare, affinché i fedeli assistano al santo sacrificio non tanto come spettatori muti e quasi inerti, ma, accompagnando l'azione sacra con la mente e con la voce, uniscano la propria devozione con le preghiere del sacerdote, purché tali canti siano ben adatti alle varie parti del sacrificio, come Ci è noto che già si fa in molte parti del mondo cattolico con grande gaudio".
La partecipazione esterna, compresa quella al canto, non è certo una bandiera del post concilio in cui si è spesso e volentieri usato in modo sovversivo e del tutto improprio questo concetto. Ora, non è negabile che esistano autori che denuncino le differenze nel concetto di partecipazione fra i documenti preconciliari e quelli che dal concilio arrivano ai nostri giorni (Grillo, Oltre Pio V. La riforma liturgica nel confitto di intepretazioni, 2007) ma io credo che, pur se queste differenze sono ammissibili, esse non vadano ad inficiare il punto principale di questo scritto: il concetto di partecipazione, anche al canto, era incoraggiato solennemente anche dai Papi preconciliari.
Proposte per una maggiore partecipazione musicale nella forma straordinaria
Ora, come è possibile partecipare nella forma straordinaria del rito romano? Anche qui ci sono modi e c'è una regola che vale per forma ordinaria e straordinaria: la partecipazione va coltivata, insegnata e incoraggiata. Il popolo, specie in paesi con minore tradizione nel canto congregazionale, non canta automaticamente. Ci vuole una seria formazione liturgica per tutti, richiesta in effetti anche questa da tutti i documenti pontifici da 100 anni a questa parte. Si pensa che il far cantare il popolo possa mettere in pericolo il grande repertorio tradizionale, ma questo è un falso dilemma. Ci sono così tanti spazi per il canto nella celebrazione che non mancherà certo spazio per la polifonia del coro o il gregoriano classico, come per il canto dell'assemblea.
Una delle risorse purtroppo meno investigate da coloro che si sentono vicini alla forma straordinaria del rito romano, è proprio quello di incoraggiare una nuova creatività a servizio della Messa antica. Talvolta si ha l'impressione che molti gruppi, anche bene intenzionati, vogliano semplicemente innaffiare la piantina preoccupandosi che essa non muoia ma rimanga sempre uguale a se stessa. In realtà l'obiettivo dovrebbe essere che essa sia in grado anche di produrre nuovi fiori, tra questi nuovi fiori musicali. Ci sono possibilità di inglobare il canto dell'assemblea nelle polifonie del coro, alternandosi o cantando insieme. Sta al genio dei compositori fare in modo che queste forme nuove scaturiscano organicamente dalla sapienza musicale tradizionale.
Potrei fare molti esempi, ma credo che saper usare le forme tradizionali per farne scaturire nuove creazioni sia qualcosa che è sempre stato in linea con il modo in cui la Chiesa ha concepito l'arte liturgica. Pensiamo per esempio all'Ordinarium Missae; Ripeto che fare questo non è in nessun modo un porsi in alternativa con il repertorio tradizionale che può e deve sempre avere il suo posto nella celebrazione ma essere anche fecondatore di nuove esperienze, come è sempre stato nella storia liturgica millenaria della Chiesa. Esistono moltissime messe alternate con il canto gregoriano, composte prima e dopo il concilio. Alcune di esse sono di ottima fattura e di livello artistico elevatissimo. L'idea dell'alternarsi fra coro e assemblea può essere un modo per salvare le esigenze della polifonia e inglobare il canto del popolo. Ci sarebbe da fare un lungo discorso su come concepire questo alternarsi salvaguardando le esigenze del testo. Tentativi, anche recenti, sono stati fatti. Alcuni di essi sono di ottima qualità.
Molte delle Messe in alternatim si servono della Missa de Angelis, in quanto più diffusa. Ma si potrà usare gli altri Ordinari per comporre nuove opere insegnando altri tesori del repertorio, e anche comporre nuove Messe completamente originali (che cioè non attingono a melodie preesistenti) che siano concepite prevedendo il canto assembleare accanto alla polifonia del coro e al suono degli strumenti, prima di tutti al suono dell'organo. Questo è stato fatto anche prima del Concilio ed ora può essere fatto con ancora più mezzi e consapevolezza. Non resta che affidarsi a questa actio sacra e lasciarsi condurre dalla sapienza dei millenni, sempre antica e sempre nuova.
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