Lettera 78 pubblicata il 11 aprile 2016
MUSICA LITURGICA E SOLENNITÀ
Pubblichiamo ora un nuovo articolo firmato dal Maestro Aurelio Porfiri per proseguire la serie di lettere di Paix liturgique dedicate al rapporto fra la musica liturgica e la forma straordinaria del rito romano.(Messa Populus Summorum Pontificum 2015 nella Basilica Vaticana. Foto Emanuele Capoferri)
Non è infrequente imbattersi in persone che, dopo aver assistito ad una Messa in qualche parrocchia sparsa sul territorio, si lamentino perché nella Messa non c'è più "la solennità di una volta". Ora, questo può essere anche vero in parte, ma credo che sia interessante capire cosa si intende per solennità e come la musica concorra a questo. Mi sono occupato già di questo tema vari anni fa (Celebrare solennemente, in Liturgia 174, 2002) e quindi riprenderò alcune porzioni di quello studio qui, con le necessarie integrazioni e i necessari aggiustamenti.
Per iniziare credo non sia di poco interesse poter valutare come il Concilio Vaticano II ha inquadrato il problema della solennità nella liturgia in quanto, come già dicemmo molte volte, non si può e non si deve separare il dato musicale da quello liturgico, altrimenti si rischia di fare un doppio errore: la liturgia senza musica si inaridisce, la musica senza liturgia si insuperbisce.
SOLENNE UGUALE FESTIVO?
“Formam nobiliorem actio liturgica accipit, cum divina Officia Sollemniter in cantu celebrentur, quibus ministri sacri intersint quaeque populus actuose participet.” Sacrosanctum Concilium, 113.
“L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo.” Questa celeberrima frase ci offre un programma di lavoro importante. La liturgia, per rivestirsi di maggiore nobiltà, richiede tre cose importanti: il canto, i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo.
Ora leggiamo il testo in questa maniera: “L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo.” Come vedete funziona, no? Eppure ho tolto una parolina, proprio perché chi legge possa rimarcare la differenza tra il testo ufficiale e questo lievemente modificato e, quindi, trarne le opportune conseguenze. La parola che manca è “solennemente”. Nel testo non viene detto soltanto che la forma del culto è più nobile quando i tre elementi citati (canto, sacri ministri e partecipazione attiva) sono presenti; ma esso è più nobile quando tutto ciò viene fatto “solennemente”. Come qualifica quella parola “solennemente” tutta la frase? Come va letta? Cosa significa in pratica “celebrare solennemente”?
Il vocabolario Zingarelli della lingua italiana ci dà questa definizione della parola “solenne”: “Di festa, cerimonia che si celebra con apparato e pompa particolari. Insigne, Maestoso.” La definizione appena letta ci fa capire come la parola “solenne” si applica a situazioni particolari, non ordinarie. Quindi si oppone il termine “solenne” al termine “ordinario”. Il termine italiano “solenne” deriva dal latino “sollemnis” ed è l’unione dei due termini “sollus” (intero) e “amno” (anno) e propriamente si può tradurre “che ha luogo ogni anno”. Altri autori preferiscono leggervi l’unione di “sollus” e “omnis”, mutando il significato in “tutto intero”, “pieno”. Anche questo significato ci offrirà spunti di riflessione più avanti. Quindi, il termine, nell’accezione più comune, denota un qualcosa che accade con regolarità e che quindi implica attesa. Troviamo molto spesso il termine impiegato in vari autori latini. In una terminologia più religiosa, “solenne” non muta di molto il suo significato, mantenendo quello della scansione annuale di qualche avvenimento religioso, implicando anche il senso di “celebrazione di un sacrificio”. Nella Sacra Scrittura, questo termine ricorre più volte, specialmente nell’Antico Testamento. Ho potuto contare più di 80 presenze di questo termine nell’AT. Ovviamente esso viene anche impiegato in tutte le sue varianti di forma. La traduzione più comune di questo termine, nella versione italiana che ho consultato (Bibbia di Gerusalemme) è la parola “festa” che, come abbiamo visto, viene indicata anche dallo Zingarelli come una delle prime definizioni di questa parola.
UN BREVE PERCORSO STORICO
Ma quale percorso storico ha avuto la parola “ Messa solenne” o “solennità” almeno nel nostro secolo? Non si sorprenderà nessuno se inizio la mia breve indagine dei precursori della SC dal documento storico per la rinascita della vera musica liturgica, il Motu Proprio di San Pio X “Tra le sollecitudini” del 22 novembre 1903. Per capire questo fondamentale documento bisogna anche capire a quali particolari domande rispondeva nel suo tempo storico. Questo non significa e non può significare che i principi vitali esposti nel documento siano passati, non siano validi ancora per noi oggi. Significa soltanto che le formulazioni concettuali ivi contenute, per essere ben comprese, vanno immesse nel quadro storico-sociale che le ha determinate.
Nell’ottocento la musica liturgica era molto pesantemente influenzata dai modelli operistici imperanti in quel periodo. Non parliamo di quello che succedeva in Italia, quando all’elevazione si poteva sentire suonata dall’organista qualche bel duetto amoroso dell’opera in voga in quel momento o quando anche le forme liturgiche come il Gloria venivano concepite esattamente come forme teatrali a sé stanti e molto spesso anche intercambiabili (si faceva magari il Gloria di un autore, ma al momento del “Qui Tollis” se ne metteva un altro di un altro autore perché magari c’era un bel assolo per il tenore e quel giorno si aveva un tenore di fama per mano). Tutto questo determinava il modo in cui si “solennizzava” il rito, e non va visto in maniera negativa.
Credo che vadano isolati alcuni elementi importanti per evitare di cadere in condanne che anche molta storiografia e musicologia ha comminato peccando di senso delle proporzioni e prospettiva temporale adeguata. Si coinvolgevano forze musicali importanti perché si pensava (correttamente) che a Dio si deve il meglio che possiamo offrire. La lunghezza di certi pezzi avrebbe voluto significare l'importanza che si dava a certi testi e momenti liturgici (ma in questo caso andando fuori strada perché si tradiva il ritmo della liturgia). A Roma, non tutto era così, accanto ad una produzione di certo impregnata di teatralismo, ve n’era un’altra più liturgica. Anche in questa si sentiva l’eco del teatro ma non bisogna dimenticare che chi componeva quelle musiche erano uomini del diciannovesimo secolo e quello era il mondo musicale in cui si era immersi. Come detto, si parla sempre di arte vera che in molti casi pecca di pertinenza liturgica, ma non stiamo parlando delle produzioni di basso conio degli ultimi decenni. Il cecilianesimo, avallato proprio dal Motu Proprio di San Pio X, darà le sue risposte per la rinascita di una musica liturgica più consona alla celebrazione. Queste risposte sono anche oggetto di valutazione critica e musicologica, ma non è qui il momento per aprire quest'altro fronte (per informazioni vedi Porfiri, 2013).
La frase di apertura del Motu Proprio potremmo metterla come intestazione di qualunque altro documento sull’argomento in questione: “La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione ed edificazione dei fedeli.” La SC ribadirà questi punti con molta precisione, solo aggiornandoli e precisandoli (vedere SC 7 e SC 112 per esempio). San Pio X, nel suo documento (che molto deve al lavoro del gesuita Padre Angelo de Santi) afferma senza ombra di dubbio il divieto del canto in volgare e quindi la riproposizione con forza estrema del latino come unica lingua del culto. Quindi solennità è sinonimo di “lingua liturgica per eccellenza” e quindi, come diretta conseguenza nella musica liturgica, di canto gregoriano e polifonia classica (massime espressioni in questa lingua della nostra tradizione musicale), pur non chiudendo la porta, anzi incoraggiando, le moderne espressioni della composizione musicale liturgica che non rinneghino certe caratteristiche di bontà, santità ed universalità delle forme. Il popolo può partecipare direttamente al canto in qualche risposta ed acclamazione ma di fatto si confinano le sue possibilità di intervento cantato più ampio alle funzioni extra-liturgiche come la Via Crucis, l’Adorazione Eucaristica e via dicendo.
La solennità documento piano, è intesa come splendore dei riti per il concorso di una musica artisticamente elevata e per la bellezza di tutto ciò che concorre allo svolgimento di un azione rituale. Ma non dimentichiamo che anche in epoca pre-conciliare, a certe condizioni, era stato incoraggiato il canto in lingua vernacolare pur che non si confondesse con il canto liturgico vero e proprio (su questo tema vedi anche Maggioni, 1997).
Merita successivamente attenzione un documento di Pio XI, la costituzione apostolica “Divini Cultus Sanctitatem”, scritta per commemorare proprio i 25 anni del Motu Proprio di or ora ci siamo occupati e che viene emanata il 25 dicembre 1928. Qui ancora si ribadisce l’efficacia della musica sacra sulla solennità delle celebrazioni, ribadendo altri concetti riguardanti, ad esempio, l’ufficiatura corale e le scholae cantorum. Ma, ciò che è importante al nostro scopo, si dà un maggior spazio al problema della partecipazione del popolo. Questo passaggio (DCS, IX) mi sembra chiaro segno di un clima in mutamento: “Affinché i fedeli partecipino più attivamente al culto divino, il canto gregoriano — per quanto spetta al popolo — sia restituito all’uso del popolo. Infatti, occorre assolutamente che i fedeli non assistano alle funzioni sacre come estranei o muti spettatori ma, veramente compresi della bellezza della liturgia, partecipino alle sacre cerimonie — anche alle solenni processioni dove intervengono il clero e le pie associazioni — in modo da alternare, secondo le dovute norme, la loro voce a quelle del sacerdote e della scuola. Se quanto auspicato si verificherà, non accadrà più che il popolo non risponda affatto o risponda appena con sommesso mormorio alle preghiere comuni proposte in lingua liturgica o in lingua volgare.”
Certo che un cambiamento evidente è difficile non notarlo. Anzi, più che un cambiamento mi sembra un approfondimento su cosa significa veramente una celebrazione solenne e come si percepisca il contrasto tra una messa magari ricchissima di apparato e il popolo muto. E successivamente al passo citato, il pontefice chiede che tutti nella Chiesa si adoperino in quest’opera di istruzione del popolo, curando che esso potesse partecipare più attivamente alla messa.
Eccoci ora ad un'altra tappa fondamentale del rinnovamento liturgico, l’enciclica di Pio XII “Mediator Dei”, promulgata il 20 novembre 1947. In questa enciclica si dà conto del risveglio degli studi liturgici, con apprezzamento e incoraggiamento. Si parla di quello che con termine generale viene definito “movimento liturgico”, attivo sia oltralpe che da noi e le cui istanze confluiranno nella SC e saranno alla base della riforma liturgica. La “Mediator Dei” è un documento ricco e complesso, sembra importante però citare un passo: “Sono, dunque, degni di lode coloro i quali, allo scopo di rendere più agevole e fruttuosa al popolo cristiano la partecipazione al Sacrificio Eucaristico, si sforzano di porre opportunamente tra le mani del popolo il “Messale Romano”, di modo che i fedeli, uniti insieme col sacerdote, preghino con lui con le sue stesse parole e con gli stessi sentimenti della Chiesa; e quelli che mirano a fare della Liturgia, anche esternamente, una azione sacra, alla quale comunichino di fatto tutti gli astanti. Ciò può avvenire in vari modi: quando, cioè, tutto il popolo, secondo le norme rituali, o risponde disciplinatamente alle parole del sacerdote, o esegue canti corrispondenti alle varie parti del Sacrificio, o fa l’una e l’altra cosa: o infine, quando, nella Messa solenne, risponde alternativamente alle preghiere dei ministri di Gesù Cristo e insieme si associa al canto liturgico.”
Non possiamo non notare come Pio XII prefiguri la Sacrosanctum Concilium e come del resto lo stesso Papa fu uno dei più citati nei documenti conciliari. La messa sarà ancora più solenne “quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo” (SC, par. 113). Per una liturgia solenne non ci vuole esclusivamente una bella musica, ma anche che essa sia funzionale al momento celebrativo, “servendone” le esigenze di tipo funzionale ed estetico. In questo non è mai stato implicato che essa deve essere sciatta o brutta. Questa è stata una tragedia che è senz’altro figlia di un certo modo di intendere la riforma liturgica, di una ermeneutica deviante ma che con essa non ha niente da spartire.
Sempre il papa Pio XII tornerà sull’argomento musica sacra il 25 dicembre 1955, con l’enciclica “Musicae Sacrae Disciplina” in cui, oltre ad un’inquadratura anche dal punto di vista dottrinale della materia musicale liturgica, si trova un ulteriore progresso e incoraggiamento per coloro che si adoperano per far partecipare attivamente il popolo alle celebrazioni. Già quando definisce cosa è la musica sacra possiamo avvertire un chiaro mutamento di prospettiva: “E infatti in ciò consiste la dignità e l’eccelsa finalità della musica sacra, che cioè per mezzo delle sue bellissime armonie e della sua magnificenza essa apporta decoro ed ornamento alle voci sia del sacerdote offerente sia del popolo cristiano che loda il Sommo Iddio, eleva i cuori dei fedeli a Dio per una sua intrinseca virtù, rende più vive e fervorose le preghiere liturgiche della comunità cristiana, perché Dio Uno e Trino da tutti possa essere lodato e invocato con più intensità ed efficacia.” E ancora: “Essa adunque nulla può compiere di più alto e di più sublime dell’ufficio di accompagnare con la soavità dei suoni la voce del sacerdote che offre la vittima divina, di rispondere gioiosamente alle sue domande insieme al popolo che assiste al sacrificio, e di rendere più splendido con la sua arte tutto lo svolgimento del rito sacro.” Poco dopo la frase riportata, il pontefice fa un elogio del canto popolare religioso, pur relegandolo quasi esclusivamente alla funzioni extra-liturgiche anche se, qualche paragrafo dopo, concede che si possa far cantare qualche brano in volgare (dopo il testo ufficiale in latino) a patto che questo brano non sia composto sulle parole del testo liturgico di quel momento del rito. Qui notiamo l'enfasi sulla distinzione tra canto liturgico e canto popolare, una distinzione che si è persa in modo drammatico negli ultimi anni “popolarizzando” il canto liturgico e di fatto tradendo la specificità dell'uno o dell'altro. Qui dobbiamo ancora rifarci al monaco Pierre Miquel che significativamente ci avverte: “Non sempre la bellezza è figlia della ricchezza. Il falso lusso regnò un tempo nelle chiese: si voleva 'fare i ricchi'. Da un quarto di secolo si vuole 'fare i poveri' e questo, talora, a un prezzo molto elevato. Soprattutto l'eccessiva nudità ha fatto perdere all'architettura la sua decorazione e alla liturgia il suo fascino. La povertà sistematica può generare il banale e il mediocre tanto quanto la ricchezza” (Miquel, 2008, p. 158).
Interessante vedere come dom Miquel introduca questa categoria del “fascino”, una categoria a cui la musica che non sposa l'ideologia politically correct della falsa povertà, contribuisce in modo sommo. Il “trasbordo ideologico” (termine usato da Julio Loredo in riferimento alla teologia della liberazione) tra liturgico e popolare ha snaturato entrambi e di fatto tradito la vera idea di solennità (Loredo, 2014). Certamente la liturgia è in certo senso popolare, nel senso che è per l'edificazione dei fedeli, del popolo di Dio. Ma questo popolare non va inteso nel senso dell'abbassamento dello splendore liturgico al quotidiano e al comune, ma l'innalzamento del popolo per la contemplazione della Gloria Dei.
PER CELEBRARE SOLENNEMENTE
La solennità non può e non deve essere disgiunta dal dato celebrativo. Non esiste una solennità a sé stante, quando essa non è al servizio dell’azione sacra. Noi non siamo dei cultori dell’estetica fine a sé stessa ma la viviamo in un contesto liturgico e rituale. Solennità è lo scatenamento dei codici di comunicazione nella liturgia. “Scatenamento” non selvaggio e incontrollato, ma iscritto nel percorso celebrativo. Noi sappiamo che sono tanti i codici che si trovano nella celebrazione liturgica: codici non verbali e verbali, codici spazio-temporali, codici personali e sociali, codici iconici e musicali (Terrin, 1988). Quando questi codici presenti nella liturgia vengono esaltati dal loro uso corretto e, ripeto, “celebrativo”, la liturgia diviene realmente solenne, anche intendendo questa parola nella seconda accezione a cui ci riferivamo all’inizio (sollus+omnis), essa è un “tutto intero”. Certamente la solennizzazione va anche riferita alle possibilità reali in quella data celebrazione.
Alcuni ancora pensano che sollennizzare significa cantare magari un brano polifonico anche quando il coro non è in grado. Questi punti sono ben espressi dal liturgista Matias Auge che pur riferendosi ad una situazione post-conciliare ci offre elementi di riflessione per entrambe le forme del rito romano: “Nelle fonti liturgiche antiche e moderne, dal cosiddetto Sacramentario Veronese al Messale Romano di Paolo VI, «sollemnitas» indica generalmente la celebrazione liturgica in sé come un tutto. Così l’espressione «Missarum sollemnia», che appare per prima volta in un’omelia per il giorno di Natale di san Gregorio Magno, significa semplicemente «celebrazione della Messa». C’è quindi solennità quando la celebrazione liturgica si esprime con tutti i suoi elementi, in modo unitario e nel rispetto della «natura» delle sue diverse parti: letture, preghiere, acclamazioni, gesti, canti, silenzi, ecc. Non si tiene conto dell’ «integrità dell’azione liturgica» quando, ad esempio, il canto è inserito nella celebrazione come un semplice elemento «ornamentale» del rito e non come un elemento costitutivo della stessa azione liturgica” (Auge, 2016).
Ci sono gradi di solennità che dobbiamo valutare a secondo della situazione reale; se possibile il grado più alto ben venga, altrimenti si proceda gradualmente e rispettando la funzionalità del rito. Non bisogna intendere il termine “funzionale” dandogli esclusivamente un accezione di “meramente pratico”. Non va bene qualunque “Santo” o qualunque musica per un introito. Non si capisce che la celebrazione deve conservare quel carattere liminale tanto bene messo in evidenza dagli antropologi: “Se si sacralizza un oggetto ordinario (acqua, cibo, tessuto, o resti umani) si può pensare che il sacro non sia totalmente altro e integralmente indipendente. Si può immaginare di essere di fronte a una concezione o a una credenza in un 'valore o potere' che transita, ed è incorporato in un determinato oggetto, in forma o come perfezionamento dell'esistente. Questo transitare di valore avviene, ad esempio, in un corpo morto, in un oggetto di vestiario, e perfino in un utensile (coppa, piatto, medaglie, corone). Si crede nella possibile trasformazione di qualcosa in oggetto sacrale, a manifestazione, a salvaguardia, o come estensione del mondo ultraumano. Inutile dire che molto problematica è la selezione degli oggetti che vengono sacralizzati; diversa è la loro fisicità e la loro natura. Da cultura a cultura, gli oggetti che vengono sacralizzati sono organizzati in classi e insiemi, distanziati in gerarchie, col fine di regolamentarne la forza di attrazione” (Destro, 2014, p. 116).
Questa ri-significazione della musica al servizio della liturgia si è persa, ma nel contempo ha corso e corre i suoi rischi anche nella forma straordinaria del rito romano. Questo rischio si configura quando la musica viene concepita come reperto museale che va visitato ogni domenica al chiuso di comode vetrine che ne proteggono l'incolumità ma che separano dai fruitori. No, per fare in modo che la solennità esploda nell'esaltazione dei codici celebrativi, bisogna fare in modo che anche i repertori del passato possano interagire più profondamente con il presente, un presente in cui ci troviamo e che ci in-forma. Il presente non va sposato acriticamente ma visto con gli “occhiali dell'eterno”, quell'eterno che la celebrazione e il suo canto, quando si accetta di sostare su quella soglia che ci permette l'accesso nella dimensione altra, preparano, favoriscono e rendono più accessibile.
Aurelio Porfiri
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BIBLIOGRAFIA
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