Lettera 79 pubblicata il 16 maggio 2016
RENDERE ORDINARIO LO STRAORDINARIO IN TUTTE LE NOSTRE PARROCCHIE E NELLE NOSTRE DIOCESI
Nella nostra lettera n. 75, abbiamo dato ai parroci dei suggerimenti pratici – sperimentati da padre Tisma, parroco di San Giovanni di Dio a Santiago del Cile – per l'introduzione della forma straordinaria nella vita delle parrocchie ordinarie. Questa settimana vogliamo analizzare e commentare le riflessioni di un avvocato americano che, in una rubrica della rivista Crisis, mette in guardia sui rischi di divisione causati da un'applicazione parziale e di parte del Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI nelle parrocchie.In occasione del terzo anniversario dell'elezione di papa Francesco, l'avvocato Christian Browne ha scritto per la rivista americana Crisis un articolo in forma di bilancio sull'impegno per il “ripristino e la promozione della messa tradizionale” nuovamente legittimata, dal 2007, con il Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI.
Il suo punto di partenza è quello di mettere a fuoco lo sviluppo della forma straordinaria in rapporto ad un pontificato visto come “una primavera del tradizionalismo” e ad un altro pontificato visibilmente indifferente alle questioni liturgiche. L'autore si sofferma in particolare sugli aspetti canonici e pratici legati al Summorum Pontificum (SP).
Sottolinea come, dato che il SP “è spesso presentato come 'liberatorio' della messa tradizionale”, questa descrizione “non sia perfettamente rispondente alla realtà”. Il SP afferma un “diritto” alla messa tradizionale per i sacerdoti, ma pone delle condizioni ai fedeli per poter approfittare di questo medesimo diritto. Se ogni sacerdote ha dunque diritto di celebrare secondo il messale di Giovanni XXIII, questo diritto non si applica che alle messe “celebrate senza il popolo”, alle messe private (SP, art. 2). Per le altre celebrazioni, Browne ricorda che è onere di ogni gruppo stabile di fedeli manifestarsi con il proprio parroco, e che i parroci hanno l'autorità necessaria in materia e sono invitati ad accogliere “volentieri” le richieste che vengano espressamente manifestate (SP, art. 5, §1).
Questo richiamo giuridico “è di un'importanza capitale per gli sforzi futuri del movimento tradizionale” perché significa che la forma straordinaria, deve diventare meno “fuori dall'ordinario”: la messa tradizionale deve radicarsi nelle parrocchie. Ma l'autore è poi obbligato a constatare che, se è vero che “il numero dei luoghi dove è offerta la messa tridentina è di molto aumentato successivamente alla promulgazione del Summorum Pontificum, resta il fatto che la stragrande maggioranza delle parrocchie non offre alcun accesso” alla liturgia tradizionale. ”La forma straordinaria resta relegata, malgrado la volontà dei fedeli, in particolari chiese, in orari speciali o per occasioni speciali”.
Di fatto, e Browne arriva così, al nodo centrale della sua riflessione, “Il Summorum Pontificum ha creato una Chiesa nella Chiesa, in cui, dei piccoli ma ferventi gruppi legati alla messa tradizionale” vivono secondo delle norme e delle pratiche liturgiche diverse da quelle del Novus Ordo (calendario, letture, ecc.). Potremmo far notare che questa situazione esisteva già nel quadro del Motu Proprio Ecclesia Dei: in altre parole, il SP ha permesso di accrescere il numero delle messe tradizionali, ma non ha cambiato le cose in modo sostanziale. “Questa situazione di una Chiesa nella Chiesa non è ottimale. Può portare ad una sorta di separazione” che vedrà i fedeli tradizionali guardare con severità, “anche incoscientemente”, i fedeli soggetti agli usi delle parrocchie ordinarie. D'altra parte, prosegue l'autore, i fedeli tradizionali “possono ritrovarsi messi all'angolo della vita delle loro parrocchie”, per non dire esclusi o cacciati, perché “devono spesso spostarsi in altre chiese la domenica” per poter beneficiare della forma straordinaria.
Di conseguenza, l'affermazione di Benedetto XVI all'articolo 1 del SP secondo il quale l'esistenza di due “espressioni della lex orandi della Chiesa – la forma ordinaria e la forma straordinaria – non inducono alcuna divisione alla lex credendi della Chiesa” perché si tratta di “due forme del rito romano”, sarebbe dunque contraddetta nella prassi. “Il fedele tradizionale, spiega Browne, è distante dalla vita abituale della Chiesa e il praticante ordinario medio non ha alcuna idea della messa tradizionale o della rottura sopraggiunta fra il Novus Ordo, per come viene celebrato generalmente nelle parrocchie, e il culto secolare della Chiesa”. Spesso la messa tradizionale è in effetti concessa in luoghi o in orari poco centrali. Potremmo dire che le parrocchie, salvo casi particolari, non ammettono la sana complementarietà che il Summorum Pontificum avrebbe voluto instaurare.
“Questa cesura viene raramente sottolineata, mentre è dolorosa, perché è del tutto contraria alla natura profonda della Chiesa, che innanzi tutto è UNA: Ecclesia una est. Facendo leva sul dono del SP, il mondo tradizionale dovrebbe dunque ricercare una più grande integrazione in seno alla vita delle parrocchie ordinarie. Il modo di arrivarci è chiaro, anche se difficile: introdurre la pratica della messa tradizionale nel maggior numero possibile di parrocchie, in particolar modo la domenica.” Al suo articolo 5, paragrafo 2, il SP non sancisce forse chiaramente che “nelle domeniche e nelle festività si può anche avere una celebrazione di tal genere”? Ma questo viene rifiutato dalla maggior parte dei nostri pastori paventando “dei rischi per l'unità”, mentre ciò che realmente temono è di dover ammettere l'esistenza stessa di numerosi fedeli legati alla liturgia tradizionale.... e così anche al catechismo tradizionale.
Nel proseguo del suo articolo, l'autore spiega che, secondo lui, questa maggiore diffusione dovrebbe passare attraverso un maggiore coinvolgimento dei gruppi SP nella vita della parrocchie, in particolare attraverso il catechismo, il servizio all'altare e il coro. Perché no? Anche se l'esperienza, da questo lato dell'Atlantico, prova che, temendo la reazione dei loro consigli pastorali, pochi parroci sono pronti a fare spazio ai fedeli tradizionali nella vita quotidiana delle comunità.
Nella realtà, però, i parroci non si sentono del tutto liberi per queste celebrazioni che sono considerate in genere un po' retrograde, se non proprio anticonciliari. Christian Browne ne ha consapevolezza, e infatti termina il suo articolo con un appello ai vescovi, mentre fino a quel momento sembrava averli esonerati da ogni responsabilità, dato che il SP conferisce comunque ai parroci, come è normale che sia, la responsabilità dell'organizzazione della celebrazione della messa tradizionale nelle loro parrocchie (proprio come fanno normalmente per la messa dei giovani, quella delle comunità straniere, ecc.).
Resta il fatto che il potere dei vescovi è considerevolmente accresciuto dopo il Vaticano II, cosa della quale Browne ha coscienza quando scrive, con realismo, che “è compito dei vescovi onorare le intenzioni e l'eredità di Benedetto XVI promuovendo la coesistenza delle due forme e facendo si che nessun sacerdote tremi al solo pensiero di una celebrazione pubblica e regolare in rito antico. Sta ai vescovi assicurarsi che ci siano molti sacerdoti formati alla liturgia tradizionale”. Che dire di più, in effetti?
In conclusione l'autore riconosce, non senza ironia, che “le sorti della messa tradizionale forse non meritano tanta attenzione come l'immigrazione o l'ecologia”, ma che se i vescovi se ne preoccupassero un minimo, vedrebbero che la sua diffusione è uno strumento efficace quantomeno per “migliorare la vita parrocchiale”.
Dopotutto, la liturgia tradizionale “è il patrimonio di tutti i battezzati”. Di cui ciascuno “ha il diritto di avere conoscenza e di essere partecipe (attivamente, senza dubbio) per il proprio benessere spirituale e per quello di tutta la Chiesa universale”.