Lettera 90 pubblicata il 6 aprile 2017

IL CANTO LITURGICO NELLE MISSIONI (1)

Ecco la prima parte del sesto articolo a firma del maestro Aurelio Porfiri sul tema della musica sacra. Prendendo spunto da un riassunto storico del magistero negli ultimi due secoli, il maestro ci offre una serie di riflessioni che vanno ben aldilà della questione musicale arrivando ad interrogare il rapporto fra la civiltà europea e il "nuovo mondo".



La parola "cultura" è risuonata nelle sue varie – e spesso ambigue – accezioni in molti dibattiti ecclesiali degli ultimi decenni, spesso con l'intento di proteggerla ovunque essa venga identificata. In realtà, questo rispetto culturale non è mai neutro, è sempre in funzione di qualche piano a monte. Mi sembra che questo sia anche ciò che è successo quando il nostro termine si declina come "inculturazione", una parola che abbiamo sentito in tutte le salse e a tutte le latitudini. Ora, sia detto con chiarezza, che naturalmente esistono delle culture da difendere e da rispettare, questo vale anche per la Chiesa Cattolica nella sua opera evangelizzatrice. In fondo è quanto si è fatto storicamente, anche se con gli ovvi eccessi e difetti del caso.

L'incontro tra la cultura cattolica e la cultura indigena nei paesi di missione non sarà stato sempre semplice, ma sicuramente ha beneficiato entrambi, la Chiesa Cattolica perché veniva in contatto con altre anime da assicurare alle sue cure, i popoli indigeni perché, oltre al poter essere battezzati nella fede cristiana, venivano in contatto con una cultura che era ricca nel campo artistico, scientifico e culturale. Non che i popoli indigeni non avessero anche loro una ricchezza culturale, ma certamente le conoscenze che venivano con i missionari arricchivano, spesso di molto, le loro cognizioni.

L'esempio cinese

Pensiamo alla Cina e ai gesuiti, pensiamo allo status che aveva Matteo Ricci nella impenetrabile corte imperiale. Questo gli veniva non dall'essere un religioso, ma dal fatto di possedere conoscenze scientifiche, letterarie ed artistiche che meravigliavano la corte imperiale. E la musica europea fu di fatto introdotta grazie all'azione di questi missionari alla corte dell'imperatore. In effetti si potrebbe prendere come esempio Macao, una città che fin dal XVI secolo fu usata dai portoghesi su concessione del governo imperiale per poter avere un punto d'appoggio per i loro lucrativi traffici verso l'oriente, specialmente Cina e Giappone. Attraverso queste rotte dei mercanti andavano anche i missionari che, avendo Macao come appoggio, si inoltravano poi per la grande Cina. In Macao si insediò una cospicua colonia di occidentali, specialmente portoghesi. Attraverso Macao passavano merci e beni anche artistici (come per esempio strumenti musicali) diretti specialmente in Cina.

La Cina fu oggetto di numerosi tentativi di inculturazione portati avanti ben prima che una certa vulgata post conciliare si impadronisse di questo termina stravolgendone poi il significato. Pensiamo ad esempio al lavoro di Padre Vincent Lebbe, un lavoro che oggi definiremmo come molto ardito, documentato dalla ricerca di Ng Ka Chai (The Indigenization of Gregorian Chant in Early Twentieth-Century China. The Case of Vincent Lebbe (1877-1940) and His Religious Congregations. The Chinese University of Hong Kong, 2007). In questo prezioso lavoro, vengono studiati i canti liturgici usati da due congregazioni di origine cinese, la congregazione di San Giovanni Battista e la congregazione delle Piccole Suore di Santa Teresa del Bambin Gesù. Il Padre Lebbe, usando il lavoro dei monaci di Solesmes, adattò testi liturgici cinesi per queste melodie. Quindi, da quello che possiamo sapere leggendo questa preziosa ricerca, i tentativi di inculturazione pur usando lingue vernacolari, furono di molto precedenti il Concilio Vaticano II. Se essi possano essere opportuni e a quali condizioni può essere questione disputata. Infatti, esperienza personale ci dice che c'è anche il caso di seminaristi o persone che hanno studiato in seminario di origine cinese, che dopo molti decenni, quando oramai non sono più in età giovanile, ancora si riuniscono per poter cantare in latino quei brani che tanto avevano amato ai tempi dei loro studi.

Il punto che si intende fare qui, è che questo tentativo di inculturazione, in modi e forme che potrebbero essere non del tutto condivisibili, è di molto precedente il Concilio, secoli prima. Parlando di Cina, non si può evitare di menzionare il vescovo Celso Costantini (1876-1958), che fu delegato apostolico in questo paese dal 1922 al 1933, un prelato che con grande fervore tenterà l'inculturazione nella difficile terra cinese, facendo uso delle sue vaste conoscenze nel campo dell'arte sacra. Un recente testo di Christian Gabrieli ("Un protagonista tra gli eredi del celeste impero. Celso Costantini delegato apostolico in Cina (1922-1933)". EDB, 2015), ci da alcune informazioni sul metodo usato da questo vescovo missionario: "Dovendo piantare la Chiesa sopra un terreno di uguaglianza, il delegato apostolico vedeva anche nell'arte sacra uno dei campi d'azione per scongiurare il sospetto della longa manus delle potenze occidentali" (pag. 139). Il vescovo Costantini denunciava l'esistenza di un problema artistico-religioso, ed egli tenterà con tutte le sue forze di dare vita ad una scuola cinese di arte sacra.

I documenti del Magistero, da Gregorio XVI...

Nei documenti ufficiali che parlano dell'attività missionaria e della musica nelle missioni possiamo identificare alcuni elementi da tenere in considerazione. Il Breve Probe Nostis (18 settembre 1840) di Gregorio XVI è considerato uno dei primi documenti importanti per l'attività missionaria della Chiesa. In esso troviamo messa in risalto questa dinamica dell'opposizione fra bene e male, in cui è implicito il concetto del missionario che raggiunge popoli che non conoscono Cristo per strapparli alle tenebre del male comunicandogli il bene dell'annuncio evangelico: "Accenniamo ad una realtà, Venerabili Fratelli, che non solo vi è nota, ma di cui voi stessi siete testimoni; voi che con dolore ma senza tacere (come è vostro dovere pastorale) siete costretti a tollerare nelle vostre diocesi i predetti propagatori di eresie e di incredulità e quegli arroganti araldi che, procedendo talvolta sotto le vesti di agnelli, sono nell’intimo lupi rapaci che non cessano di insidiare il gregge e di farne strage. Che altro? Non esiste ormai nel mondo una remota regione presso la quale le ben note centrali degli eretici e degli increduli, senza badare a spese, non inviino i loro agenti ed emissari che in modo subdolo o palese, a ranghi serrati e sfrontatamente, muovono guerra alla Religione Cattolica, ai suoi pastori e ai suoi ministri, strappano i fedeli dal grembo della Chiesa, ed impediscono agli infedeli di entrarvi".

Quindi il dovere del missionario, seguendo le parole di Gregorio XVI, è quello di battagliare con agenti ed emissari del male per permettere agli infedeli di entrare nel grembo della Chiesa Cattolica. Infatti il Pontefice prosegue: "Ma parliamo ora delle missioni cattoliche: quale motivo di letizia non offrono a Noi e alla Chiesa tutta i copiosi frutti di quelle missioni e i progressi della fede in America, nelle Indie e anche in altre terre d’infedeli? Non ignorate infatti, Venerabili Fratelli, come, anche nei Nostri tempi, in quelle regioni siano ampiamente cresciuti il numero e lo zelo indefesso di uomini apostolici che senza alcun sostegno di danaro e di armi, ma muniti soltanto dello scudo della fede, non solo con la voce e con gli scritti, in privato e in pubblico non temono di combattere, con grande successo, «le battaglie del Signore» contro le eresie e l’incredulità, ma anche infiammati dall’ardore di carità e per nulla dissuasi dalle asperità del cammino o dal peso delle fatiche, per terra e per mare cercano coloro che giacciono nelle tenebre e nell’ombra della morte per chiamarli alla luce e alla vita della Religione Cattolica. Perciò, intrepidi al cospetto di ogni pericolo, percorrono con grande coraggio le selve e le caverne dei barbari, li attirano a poco a poco con soavità cristiana alla vera fede e li dispongono alla vera virtù: infine col lavacro rigeneratore li sottraggono alla schiavitù del demonio e li restituiscono alla libertà dei figli adottivi di Dio".

Probabilmente non ci si poteva aspettare nessuna valutazione positiva della cultura dei popoli da convertire, anzi in questo caso il quadro è quello del missionario che strappa alla barbarie i popoli che vivono nelle terre di missione, convertendoli anche alla cultura cattolica (su questo punto approfondiremo più tardi) fatta anche e soprattutto della liturgia e della sua musica. Pur se il messaggio è molto impostato su questa dinamica di bene e male, non bisogna dimenticare che poi, nella pratica, i missionari non mancavano di valorizzare ed apprezzare quello che c'era di buono nella cultura dei popoli nelle terre di missione. Certamente il Pontefice vorrà come prima cosa mettere in risalto che ciò che era importante non era tanto l'apprezzamento di culture altre, ma la necessità dell'incontro con il Signore.

Leone XIII pubblica la Sancta Dei Civitas (3 dicembre 1880), in cui esorta a sostenere generosamente le missioni, in modo che molte persone possano essere battezzate e conoscere la vera luce. Questa carità, secondo il Pontefice, "è oltremodo benefica per coloro che sono richiamati dal fango dei vizi e dall’ombra della morte, e che, oltre ad essere resi idonei alla salvezza eterna, sono tratti da uno stato di barbarie e da costumi selvaggi alla dignità del vivere civile". 

... a San Pio X

Nel Motu Proprio "Tra le sollecitudini" (1903) di San Pio X, non si parla in modo diretto della musica nelle missioni, ma indirettamente viene fatto riferimento ad essa in molti passaggi. Ad esempio, laddove si dice delle caratteristiche della musica sacra, si afferma: "La musica sacra deve per conseguenza possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità. Deve essere santa, e quindi escludere ogni profanità, non solo in se medesima, ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori. Deve essere arte vera, non essendo possibile che altrimenti abbia sull’animo di chi l’ascolta quell’efficacia, che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni. Ma dovrà insieme essere universale in questo senso, che pur concedendosi ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali della musica sacra, che nessuno di altra nazione all’udirle debba provarne impressione non buona". Sarà interessante soffermarsi un attimo su questo punto.

L'universalità, scaturisce dalla santità e bontà di forme della musica sacra. Si potrebbe dire che esse ne sono al condizione necessaria. Quindi, non si darà musica universalmente valida se non sottomessa alle caratteristiche di cui sopra. Quindi i caratteri particolari (tradizioni locali, stili, etc.) non possono avere prevalenza sui caratteri generali. Quindi, la Chiesa non esclude che ci siano delle "lingue/dialetti" musicali specifici ad ogni nazione, ma con l'avvertenza che esse non possono avere una indipendenza dai caratteri generali della musica sacra, che includono l'esclusione di caratteri profani nella musica e nella sua esecuzione, l'essere arte vera, ovvero frutto di un autentico studio e artigianato del mestiere musicale, non semplicemente tentativi dilettantistici.

Il Motu Proprio poco più avanti offre i modelli per quelle composizioni che abbiano i caratteri sopra elencati: "Queste qualità si riscontrano in grado sommo nel canto gregoriano, che è per conseguenza il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto ch’essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici, che come suo direttamente propone ai fedeli, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi più recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza. Per tali motivi il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme. L’antico canto gregoriano tradizionale dovrà dunque restituirsi largamente nelle funzioni del culto, tenendosi da tutti per fermo, che una funzione ecclesiastica nulla perde della sua solennità, quando pure non venga accompagnata da altra musica che da questo Soltanto. In particolare si procuri di restituire il canto gregoriano nell’uso del popolo, affinché i fedeli prendano di nuovo parte più attiva all’officiatura ecclesiastica, come anticamente solevasi. Le anzidette qualità sono pure possedute in ottimo grado dalla classica polifonia, specialmente della Scuola Romana, la quale nel secolo XVI ottenne il massimo della sua perfezione per opera di Pier Luigi da Palestrina e continuò poi a produrre anche in seguito composizioni di eccellente bontà liturgica e musicale. La classica polifonia assai bene si accosta al supremo modello di ogni musica sacra che è il canto gregoriano, e per questa ragione meritò di essere accolta insieme col canto gregoriano, nelle funzioni più solenni della Chiesa, quali sono quelle della Cappella Pontificia. Dovrà dunque anche essa restituirsi largamente nelle funzioni ecclesiastiche, specialmente nelle più insigni basiliche, nelle chiese cattedrali, in quelle dei seminari e degli altri istituti ecclesiastici, dove i mezzi necessari non sogliono fare difetto".

Insomma, detto semplicemente, la Chiesa offre i modelli di queste composizioni che posseggono le caratteristiche per essere buona musica sacra, ed essi sono il canto gregoriano e la polifonia rinascimentale. Queste parole di San Pio X, valgono per tutta la Chiesa, incluse le cosiddette missioni. Pur accettando che le composizioni possano avere caratteri locali, questi caratteri non devono mai andare a scapito dell'universalità così come indicata nel testo di San Pio X. Verso la fine del Motu Proprio egli ancora afferma: "Nelle ordinarie lezioni di liturgia, di morale, di gius canonico che si danno agli studenti di teologia, non si tralasci di toccare quei punti che più particolarmente riguardano i principii e le leggi della musica sacra, e si cerchi di compierne la dottrina con qualche particolare istruzione circa l’estetica dell’arte sacra, affinché i chierici non escano dal seminario digiuni di tutte queste nozioni, pur necessarie alla piena cultura ecclesiastica". Il Papa parla di "principii e leggi", che sono alla base del fare musica sacra, non ne sono una parte accidentale e che si può a piacere saltare.

(a seguire…)