Lettera 84 pubblicata il 4 ottobre 2016

IL CANTO DEL POPOLO (2)

Ecco la seconda parte del quarto articolo firmato dal Maestro Aurelio Porfiri per proseguire la serie di lettere di Paix liturgique dedicate al rapporto fra la musica liturgica e la forma straordinaria del rito romano.

> La prima parte si può leggere qui.

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Dopo il Vaticano II, l'irruzione del canto popolare liturgico

L’istruzione “Inter Oecumenici” (26/9/1964) della Sacra Congregazione dei Riti, comincia a rendere pratiche le indicazioni pastorali della SC, specialmente per quello che riguarda la partecipazione dei fedeli e la traduzione dei testi liturgici. Le prime indicazioni muovono la riforma in una direzione ben precisa: “Le parti del Proprio, che i cantori o il popolo cantano o recitano, non vengono dette dal celebrante privatamente” (cap. II, 48a). “Nelle Messe lette il popolo può recitare insieme col celebrante il Pater noster in lingua volgare; in quelle cantate può cantarlo in lingua latina, e, se così verrà deciso dalla competente autorità ecclesiastica territoriale, anche in lingua volgare e con melodie da essa approvate” (cap. II, 48g). C’è poi un punto molto importante, al capitolo II (57b), quando si parla della parte che si può assegnare al volgare nella messa: “secondo le condizioni dei vari luoghi, anche nei canti dell’Ordinario della Messa, cioè: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus-Benedictus e Agnus Dei e nelle antifone d’introito, d’offertorio e comunione, e nei canti interlezionali.” Praticamente ci si imbarcava in un’avventura completamente nuova, in quanto c’era la trasformazione di fatto del canto liturgico dall’esclusivo latino alla possibilità (che sappiamo ampiamente sfruttata…) del canto in volgare. Anche perché, come si dirà più avanti nel documento, deve risaltare che la Schola e l’organista sono una parte qualificata dell’assemblea dei fedeli. In questo documento non si fa riferimento specifico a stili di musica liturgica. E questo, nella mia modesta visione delle cose, non mi sembra privo di rilevanza.

Dalla stessa congregazione abbiamo l’Istruzione Musicam sacram (5/3/1967). Nel proemio si afferma: “Sotto la denominazione di Musica sacra si comprende, in questo documento: il canto gregoriano, la polifonia sacra antica e moderna nei suoli diversi generi, la musica sacra per organo e altri strumenti legittimamente ammessi nella Liturgia, e il canto popolare sacro, cioè liturgico e religioso.” Anche se in nota viene richiamata l’Istruzione “De Musica Sacra et Sacra Liturgia”, ci rendiamo conto facilmente che c’è un passaggio importante, il canto popolare oltre alla sua qualificazione di religioso, viene anche chiamato “liturgico”, la qual cosa sembra portare uno sviluppo nuovo rispetto alla letteratura liturgica precedente, in cui il canto popolare religioso era essenzialmente extra liturgico. Ma naturalmente per canto popolare, qui si comincia ad intendere un’altra cosa. In tutto il documento si chiederà quell’attenzione affinché i fedeli non siano esclusi totalmente dalla celebrazione fino a condurli alla piena partecipazione nel canto. Il repertorio tradizionale non viene certo ripudiato ma va utilizzato nell’ottica delle nuove urgenze pastorali.

L’Istruzione “Tres ab hinc annos” (4/5/1967) allargherà ancora di più la possibilità di servirsi della lingua volgare durante la messa, comprendendo anche il Canone della stessa. Dopo questa istruzioni ne seguiranno altre, fino alla quinta che è molto recente. Altri documenti non potranno che continuare su questa strada.

Religioso o liturgico?

Credo che si sia compiuto un fraintendimento fondamentale, da parte di non pochi operatori del mondo musicale. Il canto religioso popolare è un canto che parte da un testo semplice e popolare, che esprime sentimenti religiosi anche in maniera molto forte. Si nutre solitamente della tradizione musicale sentita come propria da un determinato popolo. Pensiamo ai canti di 50 anni fa con melodie popolari che si sentivano nelle nostre chiese italiane, che erano intonati al mondo contadino che era “il” mondo dell’Italia di allora. O pensiamo ad alcuni canti di primi novecento, intonati allo stile un po’ melodrammatico e un po’ militaresco. Il popolo si esprime con la lingua che in quel momento la storia gli fa parlare. Quindi non c’è da scandalizzarsi se ci sono gruppi che compongono canti religiosi con stile moderno, in quanto non fanno che proseguire sulla strada di tanti loro predecessori. Certamente c'è da scandalizzarsi quando questi canti pretendono un posto nella liturgia, come purtroppo avviene.

Il canto religioso esprime subitaneamente l’affetto religioso, dà sfogo ad un sentimento che la gente sente il bisogno di esprimere. Il canto liturgico ha un carattere meno “personale” e soggettivo e si apre ad una dimensione decisamente più comunitaria ed oggettiva. Non è il canto del mio sentimento o di quello del mio vicino, ma la somma delle due cose. Esso, naturalmente, non rifugge le emozioni, ma le comprende in una emozione che vuole essere più grande, più spirituale. Nel canto popolare religioso diamo voce ai nostri sentimenti più immediati, quando ci va di gridare “Evviva Maria” o “Gesù, Gesù, Gesù”. In questo non c’è nulla di negativo, anzi lo trovo bello ed edificante. Ognuno lo fa con i mezzi e con la lingua che parla.

Il canto liturgico naturalmente si decodifica nella lingua che il destinatario parla, ma mentre nel caso del canto religioso ascoltiamo più la voce del fedele che invia la sua preghiera, nel secondo, tramite le parole liturgiche (e quindi rituali e ritualizzanti) è la stessa celebrazione che tramite quel canto offre al fedele un ponte verso una dimensione più profonda. Questo perché il canto liturgico è inserito in un progetto più grande chiamato celebrazione. Non vive del grido del momento, ma si espande in una inspirazione e in una espirazione.

Molta della musica che abbiamo oggi nella liturgia nella forma ordinaria vive dell’equivoco tra canto religioso e canto liturgico. La melodia del canto liturgico deve favorire l’unione dei cuori e non la dispersione emozionale. Il sentimento non ci divide nei nostri personali bisogni ma ci stringe uno all’altro. La Parola da “parlata” si fa “parlante” e chiama a tutti e a ciascuno. La melodia si fa armonia. Quindi una riconsiderazione del ruolo delle emozioni nella liturgia e nella musica liturgica e religiosa non potrà che fare bene alle nostre celebrazioni, nella consapevolezza profonda che non ci serve esclusivamente quello che ci piace, ma quello che ci costruisce insieme agli altri su un fondamento che non viene da noi.

La forma straordinaria tra gli scogli della fossilizzazione e dell'archeologismo

Detto tutto questo dobbiamo domandarci quale sia il ruolo del canto religioso nella forma straordinaria, in quanto certamente in questa forma è abbastanza evitata la confusione fra il canto religioso e il canto liturgico. Ora, io vedo alcuni pericoli che vorrei cercare di riassumere in due punti principali: quello della fossilizzazione e quello dell'archeologismo musicale.

Veniamo al primo. Nei luoghi deputati della liturgia, è bene eseguire canti popolari, così come si è sempre fatto nella storia. Bisogna però cercare di evitare una fossilizzazione nei repertori, cantando soltanto quella decina di canti che si sentono ovunque, per cercare anche di recuperare tante perle in un repertorio sterminato, come abbiamo qui in Italia. Abbiamo migliaia e migliaia di canzoncine mariane, eucaristiche e per ogni tipo di devozione, la stragrande maggioranza dimenticate ma ancora degne di essere riproposte per il loro valore musicale, per la loro aderenza al vero sentimento popolare (e non, come osservava l'allora Cardinale Ratzinger, quel popolare creato dalle grandi multinazionali), per la loro semplicità e nobiltà. Bisognerebbe che si curasse un repertorio più ampio di canti popolari, in modo da poter veramente offrire a tante persone i tesori nascosti che si nascondono in questi repertori. Questo vale non solo per Italia, ma per ogni paese, in quanto tesori di canto popolare si nascondono ovunque.

Veniamo ora all'archeologismo musicale. Non si dovrebbe soltanto recuperare questi repertori ma anche dare una certa rinfrescata al linguaggio. Le lingue nazionali conoscono un processo di cambiamento, per cui oggi non ci si esprime nel modo in cui ci si esprimeva 50 anni fa. Credo sarebbe un bene che, specialmente per quei canti che non sono già memorizzati dal popolo, e come accadde anche per gli stessi inni liturgici in epoche passate, ci sia una revisione dei linguaggi fatta da persone esperte in grado di tradurre in un linguaggio attuale ma senza introdurre elementi teologici o liturgici che sono contrari alla tradizione. Ci sono letteralmente migliaia di canti popolari che possono essere ripresi nella loro veste musicale e che con un aggiornamento del testo per quello che riguarda lo stile linguistico funzionerebbero ancora oggi. Penso sarebbe un servizio grande che, pur rimanendo nella necessaria e ineludibile distinzione fra il canto liturgico e quello religioso (che come visto si è fatta ambigua anche in certi documenti applicativi), fornirebbe un grande servizio alla liturgia stessa e all'edificazione del popolo.